La principessa

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I  PONTI  DEI  NOSTRI  PAESI

Cosa ci fa un ponte sopra un fiume ?

A cosa serve o a cosa serviva ? Come sono nati i ponti ?

Le risposte sembrano semplici. La leggenda che vi apprestate a leggere, che come tutte le altre, riposa su un fondo di verità, prova a dare delle risposte a queste domande.

Luogo geografico: Molincero (quartiere di Sigirino, comune Monteceneri)

 

LA  PRINCIPESSA

Molte e molte centinaia di anni fa, racconta la leggenda, il nostro paese non era com’è adesso. Dove ora sono i prati migliori, i campi di patate migliori, v’erano le acque di un lago poco profondo, esteso dalla Rivenza al Molincero e al Ceneri, circondato da paludi e canneti.

I fianchi delle montagne erano completamente coperti da foreste, dove le piante crescevano disordinatamente e dove i lupi e gli orsi vagavano numerosi. Non strade comode, ma sentieruzzi passavano cauti, svoltando e risvoltando in mezzo alla confusione dei vegetali. Non villaggi sorridenti al sole ma, in brevi radure, capanne di tronchi grossolanamente squadrati e capanne di canne con tetti di zolle. Intorno ad esse v’era qualche campo, in cui le biade maturavano a stento, nella loro povertà di spazio e di luce. Qualche orto ancor più piccolo, alcuni animali domestici formavano tutta la ricchezza degli abitanti di allora. I quali però ogni sera, tendevano le reti alla foce del fiume e dei torrenti e preparavano le trappole presso i varchi della foresta. Le prede abbondavano. Il lago aveva trote deliziose e il bosco lepri e conigli in gran quantità. Così essi potevano compensare, con la pesca e con la caccia, la mancanza di altri prodotti.

Ora avvenne che, laggiù nella lontanissima Roma, i pagani cominciassero a perseguitare i cristiani, a imprigionarli, a metterli in croce, a gettarli in pasto alle fiere, e che una Principessa per salvare la propria vita e quella dell’unico figlio giovinetto, fuggisse portando con sé tutte le ricchezze e i suoi servi.

Cammina, cammina e cammina. Varcò torbidi fiumi e, con grandi difficoltà, catene di montagne che sembravano insuperabili. Uomini dall’aspetto selvaggio apparivano, di tanto in tanto, in attitudine minacciosa. Uscivano come lupi dalle macchie più fitte, però, vedendoli pronti alla difesa, s’accontentavano di lanciar loro qualche inoffensiva freccia, accompagnata da urli selvaggi e subito si ritiravano.

Cammina, cammina e cammina. Attraversò una fertile pianura e si trovò di nuovo tra le montagne. Quivi un lago tagliava ai fuggiaschi la via del Nord: due bracci di acque azzurre e tranquille, estese da levante a ponente. La Principessa guidò i suoi durante alcune giornate lungo le rive.

Tutti erano ormai stanchi e anelavano di trovare un luogo dove fermarsi e dove rizzar le prime capanne di un futuro villaggio. Una sera si fermarono ai piedi di alcune colline, le quali allungavano i loro dorsi sinuosi attraverso la regione. Il sole era tramontato. La valle si riempiva, a poco a poco, di ombre. Nessun rumore, se non quello di un’acqua vicina, turbava la pace delle cose. Era l’ora in cui gli uomini, terminate le faccende del giorno, s’avvicinavano ai fuochi dell’accampamento con piacere. E, per le bestie selvatiche, c’era ancora troppa luce intorno, perché s’arrischiassero a uscire dai loro covi.

Parendole sicuro il luogo, la Principessa fece rizzar le tende in mezzo a un folto gruppo di alberi. Poi diede libertà ai suoi servi che andarono al fiume e cominciarono la pesca. Il figlio riempì di frecce la faretra, prese l’arco e s’incamminò verso i colli. Arrivò in cima alla china cespugliosa. Di lassù vide, a Nord, i monti che s’allargavano in ampio arco: le vette balzavano precise nel cielo sereno e tra gli orizzonti erano chiuse ricche foreste, scendenti giù giù, fino a immergersi in quiete acque di lago.

Pensò: “Siamo dunque arrivati al termine del nostro viaggio ?”

Scese di corsa l’altro versante, incespicando spesso e cadendo. Entrò sotto le piante e fece un breve giro d’esplorazione. Quindi desideroso di fornire, come al solito, carne fresca ai suoi per il giorno dopo, si nascose tra le canne palustri, là dove il ruscello versava le sue acque nel lago e dove sarebbe certamente passato qualche selvatico, nel recarsi all’abbeveratoio.

Infatti non era trascorsa un’ora e la luna era appena apparsa, che egli aveva già fatta buona preda: due conigli, un capriolo e parecchi uccelli giacevano ammucchiati lì vicino. Decise di tornare alle tende. Strappò alcuni giunchi e li attorcigliò ben bene. Riunì le zampe della selvaggina in un fascio, volendo legarle insieme con la corda improvvisata. Per essere più comodo s’inginocchiò … E fu buon per lui.

Un giavellotto passò, fischiando sul suo capo e andò a perdersi in mezzo ai vegetali. Il giovane balzò da un lato e si guardò intorno. Chi poteva essere ? Colui che aveva lanciato l’arma non poteva essere amico.

Di ciò convinto, curvatosi lentamente, cercò a tentoni e raccolse l’arco. Vi mise una freccia e attese. Nel silenzio, egli sentì un fruscio quasi impercettibile, che veniva dai cespugli situati sull’altra sponda del ruscello.

Finalmente, ecco quattro teste apparvero in mezzo alle piante. La freccia del romano partì. Sibilando s’aperse un varco tra il fogliame. E un urlo, come di bestia ferita, rispose sull’altra sponda del ruscello, dopo due ore di corsa attraverso il canneto e il bosco, il giovane riuscì a trovare la strada e a tornare all’accampamento, era finita nella valle la gran quiete di prima. Voci di uomini si chiamavano e si rispondevano. Un corno ululava, laggiù in fondo. E quelle voci e quel suono parevan recare dovunque un’angoscia inesprimibile.

Per i nostri fuggiaschi la notte passò piena di timori e di allarmi. Lontani clamori portati a intervalli dal soffio della brezza, avevano impedito a ciascuno di prender sonno. Ogni fruscio di bestia intenta alla solita ricerca notturna di cibo, li aveva fatti balzare dai loro giacigli, anelanti, con le armi pronte, a scrutare il buio misterioso della boscaglia.

Così, appena sorse l’alba, fu per tutti un gran sollievo. E non sembrò loro maggiore il pericolo, vedendo raccolta sul dorso della collina più prossima, una schiera di uomini armati e minacciosi che si preparavano a combattere.

Ma la Principessa non volle, Ella uscì in quel momento dalla sua tenda e fece un segno imperioso ai suoi, di starsene quieti. Poi s’incammino sola, verso il colle. Tutti la videro salire, senza fretta e senza timore incontro agli altri uomini, che ora gesticolavano, discutendo animatamente fra di loro.

Tacquero quando fu vicina. Ed Ella cominciò a parlare e certamente seppe trovare le parole buone ad ammansirli, perché la circondarono con segni di rispetto e, dopo qualche tempo, gettate le armi in disparte, a gran voce chiamarono i romani. Aveva detto, la Principessa, che suo figlio si era difeso con diritto, essendo assalito. E che era inutile spargere nuovo sangue, da ambo le parti. Ch’Ella avrebbe però, pagato il debito del figlio. Avrebbe, cioè fatta tagliare la grande roccia, perché le acque del lago defluissero verso sud. Avrebbe anche costruito un ponte fra le due rive e bonificata la regione abbandonata dalle acque. Così come fu poi fatto. E chi non ci crede, corra a vedere.

La leggenda continua…

Terminata la bonifica del piano, la Principessa fece costruire una cappella, là dove sorge San Mamete, e convertì al Cristianesimo le popolazioni di tutta la valle del Vedeggio.

La storia dice altrimenti. Ma che importano, in fondo, le verità della storia, se le leggende, più vicine ai cuori dei nostri vecchi, hanno un sapore di poesia che più ci piace?

 

12 giugno 1936, Aurelia Canepa

Noi della SMU Camignolo (Anno 3  Numero 3  giugno 1981)

 

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